La sinestesia esiste. È vera. Una contaminazione, una lotta tra sfere sensoriali diverse. Un processo percettivo che comporta l’interazione tra sensi tra loro differenti, in modo spontaneo e non controllabile. Un fenomeno che colpisce in pochi, pochissimi, quasi da contarne sulle dita di una mano.
È a questo che la mente ritorna, anni e anni dopo. Un giorno qualsiasi, fotocopia di altri, in una provincia sperduta e claustrofobica. Scuole elementari, giorno di pioggia, maestre che propongo questa sorta di esperimento mentale. Bambini che collegano la nota Fa al giallo, altri che urlano eccitati, che sì, sì, la nota Sol è proprio rosa. Davvero, davvero rosa.
È da qui che inizia il mio rapporto vero e proprio con la musica. Un processo graduale, lento, che parte da MTV, da Top of The Pops, dalla radio, e termina con la mia ricerca continua di nuovi generi, di nuove opportunità per ampliare il mio bagaglio musicale. Che culmina con il mio consumare dischi su dischi.
E a ciò mi rifaccio, una decade e tante esperienze dopo. Dieci canzoni, dieci colori per spiegarmi.
1. Sigur Rós – Hoppipolla (Giallo)
La quiete dopo la tempesta. Dei bambini che giocano, l’aria ancora umida e fredda, il sole appena spuntato. Quel Glósóli, il “sole immortale” tanto caro alla band alternative-rock islandese. Un testo che rimanda alle filastrocche infantili, un’orchestrazione che nasce semplice e cresce sempre più, fino a diventare asfissiante. Immagini della natura islandese e melodia che rimanda al vorticare di un girotondo. Quei bambini che saltano nelle pozzanghere (letteralmente Hoppipolla), si danno la mano per girare in tondo, ignari di tutto. Momenti che mi riportano all’infanzia, alle ninnenanne cantate da mia madre, alle canzoncine canticchiate in tenera età.
Il colore dell’ingenuità, della spensieratezza che a volte manca, dell’immaginazione, della parte di me che ancora deve crescere, farsi forte.
2. The XX – Crystalised (Viola)
Una metafora per l’amore e un gruppo inglese che oscilla tra lo slow alt-pop e l’indie più spudorato. Una canzone nata per caso, che sottolinea sottilmente le difficoltà di ogni genere di rapporto umano. Riferimenti al Mito di Icaro, un sentimento che causa paralisi e paura, la propensione alla ricerca della perfezione (“I liked the idea of forcefully making something take shape into something more beautiful”, come chiarirà un membro del trio). Ennesime caratteristiche ravvisabili in me.
Il colore della ricerca spasmodica di un legame profondo con l’altro, dell’empatia, di chi spesso rifiuta il proprio lato razionale.
3. Alt-J – Breezeblocks (Rosa)
Amori adolescenziali e non, amori platonici destinati a spegnersi, il donarsi all’altro nella sua forma più pura. Senza aver paura di ferirsi, senza remore. L’ingenuità delle prime cotte e l’inesperienza. Riprendendo lo stesso colore nella copertina del loro album di debutto (An Awesome Wave), il gruppo inglese confeziona un gioiellino dell’indie rock.
Il colore bubblegum di quegli anni, che forse sono stati i miei più belli.
4. Janis Joplin – Summertime (Oro)
Torniamo indietro nel tempo. 1968 e fenomeno hippie ormai diffuso in tutto il mondo, in ogni sua diversa sfumatura. La voce di quella generazione è Janis Joplin, anima tormentata destinata a morire a soli ventisette anni. Riprendendo un’aria jazz di Gershwin del 1935, la cantante propone la sua versione, più ruvida, ricca, consumata.
Il colore di chi cerca costantemente di sopraelevarsi, di superare le barriere. Di chi desidera libertà più totale, come me. La gioventù nei suoi anni migliori.
5. FKA twigs – In Time (Arancione)
Melissa. Entità che dispende energia creativa da cui attingere. Potenza femminile che rimanda ad Apollo, il dio del Sole stesso. Da qui prende ispirazione Tahliah Bennett per il suo EP M3LL1XXA, lavoro in cui si sente presente, calcata, marcata la mano di Arca, produttore che di estro e originalità ha fatto base per la propria musica. Un progetto alternative rnb, contaminato ora più che mai da elementi elettronici e rimandi ad altri generi.
Il colore della creatività, della forza interiore, del mio amore per ciò che è artistico e umanistico.
6. I Cani – Calabi Yau (Indaco)
Passare dalla periferia romana all’universo non è mestiere semplice. Un processo graduale, durato anni di lavoro. Ormai lontano dalla critica ad una società velleitaria e frivola – tratto caratterizzante dell’album d’esordio -, e dal synth – rock sparato dei primi tempi, l’occhio del frontman Niccolò Contessa va oltre. Attraversa lo spazio siderale e indaga gli spazi di Calabi Yau (“Secondo alcune teorie delle stringhe, lo spazio tridimensionale che vediamo in realtà è un’approssimazione, perché in ogni punto dello spazio ci sono dei micro-spazi di 14 o 22 dimensioni, tutte arrotolate tra di loro. È come se lo spazio tridimensionale che vediamo sia in realtà un mosaico fatto di minuscoli spazietti di tantissime dimensioni”, spiegherà in un’intervista). Richiama la crisi d’identità dell’uomo moderno (“Tanto basta cercare, la notte, su Google, il mio nome”), si tinge di nichilismo puro. Ne esce fuori un pezzo dall’atmosfera intima e malinconica, con una base lo-fi che alla lunga sfocerà in uno sciame elettronico.
Il colore di chi è troppo critico nei confronti del mondo, del misticismo che da sempre mi ha affascinato, della spiritualità.
7. Sufjan Stevens – Should Have Known Better (Azzurro)
Un cantautore che ha perso le parole. È così che Sufjan, - dedito da sempre ad uno stile minimalista che strizza l’occhio al folk, al jazz, a musiche di altre culture – si presenta nel suo album più intimistico e personale. Un cantautore muto. Una condizione forse comune a più persone, forse no.
La morte della madre e del patrigno si ripresenta a più riprese, come un fantasma, all’interno di “Carrie & Lowell”, intrecciandosi a storie passate, ad episodi nuovi, ad un’infanzia rarefatta, ad amori giovani e maturi. È da qui che nasce Should Have Known Better, bravo voce-chitarra simbolo del dualismo dell’animo del cantautore statunitense: un passato ingombrante che lotta, combatte e si arrende alla bellezza che sua nipote, appena nata, porta nella sua vita.
Il colore della riflessione, della ricerca dentro di sé, dell’idealismo sfrenato. Altre note che mi caratterizzano.
8. Florence + The Machine – St. Jude (Blu)
Un uragano (quello che si abbatté in Inghilterra nel 2013) e un santo (protettore delle cause perse). Florence Welch più eterea che mai su una base priva di arzigogoli. L’elemento dell’acqua come leitmotiv dell’album “How Big, How Blue, How Beautiful”. Acqua che purifica, dà vita, ripulisce e consola, travolge, uccide. Acqua che simboleggia il mutamento, l’abbandono, la solitudine che spesso cerco, fortemente, costantemente.
Il colore dei sentimenti profondi, dell’armonia, della tristezza.
9. Le Luci Della Centrale Elettrica – Macbeth nella Nebbia (Verde)
Poi arriva Vasco Brondi, cantautore di Ferrara, con Costellazioni. Un album che vuole centrarsi, focalizzarsi sulla possibilità di futuri migliori e prossimi, rifuggendo le atmosfere pesanti e cupe dei primi lavori. Rifiutando il pessimismo cronico che lo ha accompagnato per diverso tempo, dal 2008 al 2013 (anni senz’altro delicati per l’Italia stessa). Addirittura rinnegandolo. E Costellazioni è proprio questo: immaginare altre vie Lattee, altri pianeti raggiungibili (“ti accorgi che nel disastro il futuro era sempre lì a sorriderci”, canterà).
Il colore della speranza, della vitalità, dell’ottimismo che mai è stato parte di me e che forse, forse, dovrei ritrovare.
10. Bjork – Stonemilker (Bianco)
Prendete il quadro “Sguardo D’Artista” di Fontana, simbolo del movimento Spazialista. Esaminate “Vulnicura” con attenzione, più volte. Immaginate ora che da quei tagli, da quelle lacerazioni, fuoriesca del sangue. E che la cantante, il folletto islandese debba trovare un modo per “curarsi” – letteralmente – “le ferite”. Per andare oltre, per superare il dolore. Da questi presupposti nasce Stonemilker, uno dei momenti più intimi e profondi dell’immensa produzione bjorkiana.
Il colore della saggezza, della vecchiaia, della purezza, della fragilità che cerco di controllare.
Ho cercato, forse inutilmente, di spiegarmi con troppe parole. E a volte, davvero, non servono. L’ho imparato.
E voi, voi di che colore siete? Di che sfumature sono le vostre canzoni?
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