Recensione Album: "Realms" di Darkher

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Il fruscio del vento che smuove delicatamente i rami di una boscaglia sperduta, le tenebre che iniziano a farsi largo nell'aria con l'arrivo del crepuscolo, e poi lei -una misteriosa entità femminile dai tratti quasi elfici- che muove i propri passi vagando senza meta tra l'incolta vegetazione. Dopo l'ascolto del disco che sto per recensirvi, non sarebbe affatto difficile immaginarsi che tale presenza possa essere proprio l'inglesina Jayn Wissenberg (in arte Darkher), con chitarra in mano e corde vocali pronte a sprigionare una voce che definire fatata sarebbe riduttivo. Ho cercato online qualcosa su tale donna ma con poco successo: nessuna notizia biografica; si sa solo che fece già parte di un altro gruppo, gli The Steals (di stampo molto più folk "classico" rispetto a quella che successivamente sarà la strada intrapresa con questo progetto), che poi però abbandonò per divergenze musicali. Ma poco importa, passiamo immediatamente alle cose concrete lasciando che sia la musica a parlare.
Darkher fece ufficialmente la sua comparsa nello scenario underground nell'autunno del 2014 con un sublime EP denominato The Kingdom Fields (che vi consiglio caldamente di recuperare) e, a quasi due anni di distanza, si è finalmente ripresentata lo scorso mese, precisamente il 19 agosto con il vero e proprio album di debutto Realms.


Accompagnata da una band di supporto, la Nostra tesse un sound molto atmosferico e dalle tinte dark fantasy, a cavallo tra un folk apocalittico e un evanescente post rock. Elemento sonoro dominante dell'album (e dell'intero universo dell'artista) è senza ombra di dubbio la chitarra, la quale assume tonalità ora estremamente dolci e rilassate ora molto pesanti e inaspettatamente vicine a territori doom metal. Il tutto può essere dunque riassunto come una lotta continua tra quiete (sempre e comunque apparente) ed inquietudine, tra luce ed ombra.


In questo scenario certamente non molto rassicurante (ma perfetto per gli intenti di Jayn) Darkher libera attraverso i suoi enigmatici testi le proprie insicurezze, la propria malinconia, la propria delusione per un mondo a cui sente di non appartenere. Lo stile di scrittura è incredibilmente efficace nella sua estrema concisione e nel suo essere tremendamente poetico: con una manciata di parole riesce a dipingere quadri ricchissimi di particolari e dalle sfumature spesso offuscate, il che lo trovo molto affascinante. Qualche bella frase però non può prendere vita con una interpretazione fredda e insipida; fortunatamente non è questo il nostro caso (da come vi ho già fatto capire ad inizio articolo): la voce di Jayne è tanto delicata quanto profonda, e soventemente "sublime" in eterei sospiri dando vita a passaggi vocali da brividi, ascoltate l'angosciante outro di Hollow Veil per capire.



Il disco in generale (nelle sue sole nove tracce, di cui sette canzoni effettive) si configura come una sorta di viaggio attraverso i "regni" dell'artista, in cui l'ascoltatore si ritrova del tutto smarrito e colpito violentemente come da una raffica di frecce interminabile (l'alta carica emotiva di ogni singolo brano). Dall'ambigua Moths alla sinistra Foregone (ripescata dall'EP precedente), dalla superba Wars alla solenne Lament, passando per la paradisiaca The Dawn Brings A Saviour e la violenta Buried (divisa in due parti), il progetto appare da un lato sicuramente molto compatto e dall'altro per certi aspetti stilisticamente scarno, eppure si mantiene in ognuno dei suoi quarantasette minuti di durata incredibilmente stratificato e ricco. In definitiva -a meno di piacevoli sorprese nell'ultimo quadrimestre di questa annata- Darkher firma l'album di debutto femminile solista (o quasi) migliore del 2016, forte di un lavoro estremamente valido, curato, ma crudo al punto giusto.





Voto da parte dello staff di Booklet

65/100



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Recensione scritta da: Alle (Understanding)

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