La musica é la mia religione e le mie canzoni sono il mio altare.
Queste sono le interessanti parole con cui Jillian Banks, cantautrice e compositrice americana, descrivere il significato del suo secondo album "The Altar" uscito oggi.
L'artista, prima di questo album, ha proposto sonorità alternative pop mischiate ad un misterioso e cupo R&B...ma questo volta, si é voluta spingere oltre tirando la fune fino a tenerla tesa in una perfetta miscela di sonorità trap, urban ed R&B.
Il risultato é The Altar; The Altar é la sorella gemella di Goddess, una sorella più sicura di se e meno timida...che non ha paura di osare.
L'album presenta una maturazione artistica evidente che spinge le sensuali sonorità dell'artista fino a degli estremi inesplorati prima, rendendo il tutto tremendamente accattivante.
Piano e voce; "And to think you would get me to the Altar” canta BANKS, “But admit it you just wanted me smaller. If you woulda let me grow you coulda kept my love".
L'intro di Gemini Feed é solamente un assaggio di cioè che ascolteremo nel giro di pochissimi secondi. Beat ovattato e sonorità interessanti fanno da sfondo al brano, secondo singolo estratto da The Altar.
La canzone si presenta come una affascinante e saggia miscela di orecchiabilità e "classico stile Banks", che vanno a creare uno dei pezzi più interessanti all'interno della carriera dell'artista. Anche dal punto di vista testuale, dove leggiamo Jillian dire al suo amante nero su bianco di iniziare ad amarla come essere umano con dei sentimenti e non come un corpo da guardare.
Subito dopo ad accoglierci abbiamo "Fuck With Myself", interessante pezzo dalle sonorità soft trap che vedono sperimentare anche l'uso della voce da parte dell'artista in un modo davvero unico.
Sarà interessante scoprire che la canzone ha un forte messaggio, e non si ferma al mero titolo che potrebbe essere frainteso.
La canzone parla del rapporto che si ha con se stessi; dell'essere la propria madre, il proprio migliore amico e il proprio bullo... cercando di farci del male da soli ma allo stesso tempo di sanarci.
Il video musicale é una perfetta trasposizione del messaggio.
Si torna al passato con "LoveSick", alle origini ben definire dell'artista con questo pezzo in pieno stile Banks che si destreggia alla perfezione e riesce a rimanere in testa molto facilmente grazie al ritornello.
"Lovesick", e la successiva, "Mind Games" hanno il compito di trovare un piccolo spazio di quiete all'interno di un album che di quiete ne ha davvero poca.
"Mind Games", secondo singolo promozionale, può essere definita come la versione più ricca di dettagli di "You Should Know Where I'm Coming From".
Ad aprire, e non solo, la canzone ci sono dei cori misteriosi che mettono subito l'ascoltatore nel mood adatto.
La canzone, adornara da dei sound incisivi e tormentati, danno risalto al forte testo della canzone e alla rassegnata Jillian che dice al suo amante: “Do I ever have to notice? I’ve been standing here and I don’t know why. Did you ever even see me try? Do you see me now?”
Ed eccoci arrivati alla più grande divergenza sonora di questo album, Trainwreck, che avrà poi come seguito "This Is Not About Us".
La canzone, scritta da Jillian all'età di soli 14 anni, strano ma vero, presenta uno dei testi più belli dell'album e oserei dire, della sua carriera.
“Talking to ears that have become deaf for as long as I can remember. A self-medicated handicap, so I talk to myself. And I try so hard to get his stupid deaf ears to hear that I’ve become illiterate. I’ve become dumb.”
La canzone presenta tantissime sfumature ed é così frenetica che non riesci a capirla da subito.
L'artista ha deciso veramente di osare e l'ha fatto molto bene se il risultato é questo. Possiamo ascoltare Jillian destreggiarsi tra line rap, velocizzate ed effetti audio paradossalmente inaspettati.
Ed eccola, la quasi sicura prescelta come terzo singolo, "This Is Not About Us".
Canzone upbeat e molto catchy, che comunque essendo la più radiofonica del progetto, non perde autenticità...anzi.
"I see you picking at my missing piece
To the puzzle that you use for life
I'll wait a minute while you try to come for mine"
Ed ecco che arriviamo a Weaker Girl, una canzone fragile ma allo stesso tempo forte come la voce di chi la canta. Il brano, accompagnato da una batteria, percussioni e da delicati violini ci accompagna dentro uno dei lati di Banks più conosciuti, infatti la canzone potrebbe benissimo essere stata parte del suo primo album.
"'Cause I'ma need a bad motherfucker like me" enuncia Banks nel ritornello e nel primo verso, dando l'idea di non essere la ragazza debole che il suo uomo voleva avere.
Se sentivamo la mancanza di lume di dolcezza all'interno di una tempesta di produzioni complesse, versi rap e ritornelli gloriosi siamo alla traccia esatta, Mother Earth.
La base della canzone è una delicata e dolce miscela di chitarra acustica, violini e cori onirici che fanno da sfondo al testo, molto importante per l'artista.
Mother Earth credo abbia uno dei testi migliori all'interno dell'album ed è davvero rincuorante ascoltare le parole di Jillian in questo pezzo, come ad esempio:
"Follow me to my bed
‘Cause every time you fall, I’ll be holdin’ your head up
And when will you get tired of feeling bad?
And every time you fall, fall on me"
L'artista parla di questa canzone, definendola la canzone di cui è più fiera insieme a To The Hilt, Dice di averla scritta quando un giorno si mise a riflettere all'enorme pressione che la società mette sopra le donne; "la società vuole far sentire le donne in dovere di diventare piccole piccole per occupare il meno posto possibile nel mondo, che, a quanto pare non spetta loro."
Le prossime tre canzoni saranno una trilogia; una trilogia perché in comune hanno il fatto che la grande ispirazione per il testo è stata una sola persona.
Subito dopo ci troviamo di fronte forse alla migliore canzone dell'album, a mio parere almeno.
"Judas" presenta delle sonorità molto particolari, che spaziano dall'urban all'alternative R&B.
La canzone presenta un testo molto profondo e riesce a catapultarti in un mondo oscuro, dove puoi percepire benissimo il dolore provato da Jillian.
Jillian descrive questo uomo come Giuda, ovvero, un traditore attraverso frasi come "Too numb to feel. Too numb to feel the knife in my back" e "I find all your skeletons a closet full of bones, I see you take pride in bloody eyes I know your stoned"
La prossima canzone, Haunt, piena di loop tribali e suoni della natura risulta avere una delle produzioni più allegre dell'album.
Ovviamente, non lo è perché parla del sentimento che ti perseguita (Haunt, per l'appunto) dopo aver lasciato la persona che credevi ti avrebbe amato ma che invece non faceva altro che pugnalarti alle spalle.
Il brano si presenta con un particolare intro, per poi essere seguita da un primo verso molto soft ma allo stesso tempo ritmato che porta Banks in un tipo di canzoni mai esplorato, per poi arrivare al ritornello che possiamo definire un ritornello soft ma allo stesso tempo incisivo, sopratutto per l'utilizzo della voce.
Un'esplosione di varie emozioni, la dualità del volere e del non volere, e di essere in trappola da queste emozioni...questa è Haunt.
“I started all our wars. I’ve been getting messages from my deep waters.”
A mio parere, in base a come l'ho interpretata io, "Poltergeist" tratta dello stesso stato d'animo affrontato in Haunt, solo messo su un piano emozionale più profondo e introspettivo.
L'artista definisce il suo ex un fantasma, "O mio dio, credo di aver visto un fantasma", un fantasma del passato.
Possiamo vedere Banks lottare e confrontarsi con i suoi demoni interiori e prendere possesso di essi, diventare la loro padrona e lasciare che i suoi fantasmi non la perseguitino più.
La produzione, per questo pezzo, è molto particolare e trasmette proprio le emozioni che l'artista racconta.
Piano e voce, stop; nulla di più potente ed emozionante; questa è To The Hilt,
Questa canzone a mio parere, nei suoi quattro minuti circa di durata, è il perfetto riassunto di tutti gli argomenti trattati nei 40 minuti precedenti.
Sicuramente uno dei testi migliori dell'artista, che sprigiona il suo dolore...e lo fa senza nessun tipo di filtro, semplicemente in modo naturale e puro...come la sua musica.
“I hated you for leaving me. You were my muse for so long. Now I’m drained creatively, but I miss you on my team.” racconta Banks, citando anche "Mind Games", e facendo trasparire un sentimento di smarrimento e tristezza.
L'album si conclude cona gloriosa ed esplosiva Power Ballad "27 Hours".
La canzone presenta, per la prima parte un piano vellutato che poi esplode, come il ritornello, in una maestosa orchestra quasi ovattata da suoni che danno atmosfera a quello che sembra il ritornello più potente all'interno dell'album.
In definita, posso dire che "The Altar" è un passo avanti a Goddess, e quel piccolo passo è bastato per vedere e ascoltare Banks divenire veramente se stessa nel genere che più le si addice.
E voi? Avete apprezzato il secondo lavoro di Banks? O preferite il primo album, Goddess?
Recensione a cura di Lorenzo (Judas)
Voto concordato dallo staff di Booklet:
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